di Riccardo Oldani
Che cos’è un vino sostenibile? Non è più solo quello “ecologico”, prodotto pensando soprattutto a rispettare l’ambiente, “e poi non importa se è così così”. Un vino che può fare breccia su un ristretto pubblico di accesi ambientalisti, ma non sulla massa dei consumatori. Questo approccio poteva funzionare una volta, ma adesso, che il mercato si è fatto più maturo e che è possibile trovare vini bio o biodinamici di grande livello, occorre cambiare direzione.
Di questo, in sostanza, si è dibattuto durante lo scorso Simei, in occasione di uno dei due congressi internazionali organizzati dall’Unione Italiana Vini in collaborazione con Opera, il centro di ricerca sulla sostenibilità in agricoltura dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e con il patrocinio dell’Oiv, del Ceev e della Fivs.
Il simposio, che si è tenuto il 3 novembre, era dedicato alla sostenibilità intesa come tributo alla qualità del vino, e faceva coppia con un altro evento, svoltosi il giorno dopo, dedicato all’analisi sensoriale. Tra i partecipanti, esponenti del mondo accademico, imprenditoriale e governativo provenienti da tutto il mondo.
Un abbinamento, quello tra sostenibilità e fattori sensoriali del vino, che non è stato casuale. Lo ha sottolineato la brillante conduttrice del convegno, Natasha Walker, che ha evidenziato come “un concetto moderno di sostenibilità si basa su tre aspetti fondamentali: quello ambientale, quello sociale e quello economico. In altre parole un vino per essere sostenibile non deve soltanto rispettare l’ambiente, ma anche essere fattibile dal punto di vista economico per i produttori e, per quanto attiene l’aspetto sociale, deve mantenere intatto tutto il potere evocativo del vino, che si basa su tradizione, territorio e, soprattutto, sapori e profumi”. Per dirla molto in sintesi, il vino sostenibile deve essere buono. Ed ecco allora che l’analisi sensoriale, il sistema che più di ogni altro riesce a definire in modo oggettivo il concetto di buono, assume un ruolo centrale anche nella definizione di sostenibilità e diventa il ponte ideale tra la percezione del consumatore e l’idea del produttore.
Un auspicato effetto domino
A indicare le basi su cui sarà importante lavorare per imprimere un taglio di sempre maggiore sostenibilità di tutta la filiera del vino è stato Ettore Capri, del centro di ricerche Opera: “È chiaro ormai – ha detto – che la sostenibilità risulta dal punto di equilibrio di tre aspetti, sociale, economico e ambientale. Sono moltissimi i programmi di ricerca nazionali e internazionali su questo tema, ma manca al momento una loro armonizzazione, quindi è fondamentale agire in questo senso per produrre un auspicato effetto domino, cioè una sempre maggiore presa di coscienza dei contenuti della sostenibilità del vino dal produttore al consumatore. In questo senso la sostenibilità si propone come una grande opportunità, per sviluppare nuovi business, nuovi mercati, nuovi prodotti, soluzioni innovative e per promuovere un migliore utilizzo delle risorse”. La sfida, secondo Capri, “è capire sempre meglio la fattibilità economica di certe soluzioni, definire procedure e normative, semplificare il messaggio nei confronti del consumatore, oggi confuso da un eccesso di loghi, marchi, etichette che celebrano la sostenibilità di un prodotto. In altre parole, anche la comunicazione deve essere sostenibile. Il miglioramento, infine, deve essere indirizzato anche dall’innovazione e da nuovi modi per coinvolgere i protagonisti del mondo del vino, finanziatori, politici, decision maker”.
In tutto questo trovare un equilibrio e una direzione non sarà semplice, come ha messo in evidenza Ulrich Fischer, professore di enologia e di analisi sensoriale, ma anche esperto del centro di ricerche tedesco sul vino del DLR Rheinpfalz, una struttura dedita allo studio per il miglior utilizzo del territorio della Renania, in Germania. Secondo Fischer la sostenibilità non può andare oltre certi parametri che hanno fissato l’idea del vino nel pubblico e che si basano su aspetti come la tradizione e il legame con il territorio. “Siamo tutti preoccupati – ha detto – per l’aumento del consumo di alcol, e siccome il vino è una bevanda alcolica sono sempre più utilizzate tecnologie per eliminare l’alcol dal mosto o ridurre il contenuto zuccherino nelle uve. Ma c’è un livello al di sotto del quale abbiamo una percezione diversa di un vino, tanto da fargli perdere il legame con la tradizione da cui proviene? Conoscere questi limiti è fondamentale per mettere a punto prodotti che continuino a essere di successo, senza perdere la loro identità e il loro legame con il territorio”.
Vini sostenibili, dunque, purché continuino a restare vini.
Esempi di sostenibilità
Come dev’essere allora l’azienda vinicola sostenibile? Allison Bonnett, esperta di analisi sensoriale e consulente per cantine di tutto il mondo, ha portato alcuni esempi. Come quello di Roberto Antonini, indicato dalla rivista Decanter come uno tra i cinque enologi più bravi del mondo, che nella sua azienda, Poggiotondo, non solo ha convertito i vigneti al biologico, ma usa vasche di cemento per la vinificazione, in modo da massimizzare l’interscambio gassoso tra vino e atmosfera esterna, sfruttando la porosità del materiale, ed evitando contaminazioni con il legno.
Altro esempio è quello del produttore sudafricano Spier, che attua un’attenta gestione del territorio basata non solo sui vigneti ma anche su colture e pascoli e sulla piantumazione di alberi, incoraggiata attraverso un progetto, denominato “Treepreneur”. L’iniziativa invita gli abitanti dei villaggi vicini a curare gli alberi in modo sostenibile, alternando la messa a dimora al taglio, da cui ricavare legno per realizzare oggetti di artigianato. A questo si aggiunge un programma di depurazione e riutilizzo dell’acqua usata per le operazioni di cantina. “I risultati di questo progetto – ha spiegato Bonnett – sono stati eccezionali, perché hanno affiancato alla produzione del vino anche un’attività a beneficio delle comunità locali e della gestione del territorio, riducendo di quasi il 70% il fabbisogno idrico e praticamente azzerando il rischio di incendi, un tempo molto frequenti. Iniziative di questo tipo si rivelano effettivamente sostenibili, perché generano un valore positivo diffuso e contribuiscono a rendere la produzione vinicola meno costosa e più utile a livello sociale”.
Un altro progetto illustrato durante il convegno è stato quello avviato all’Università di California a Davis da Roger Boulton, professore di enologia ed esperto dei processi produttivi della vitivinicoltura. A Davis è stata creata una cantina completamente autosufficiente dal punto di vista energetico e del fabbisogno idrico, con una serie di soluzioni avveniristiche che la rendono un laboratorio unico al mondo e un modello tenere presente per il futuro di questo tipo di produzione.
Le cose da fare
Al di là dei buoni esempi restano però molte cose da fare per rendere davvero sostenibile la filiera del vino. Gli esperti che hanno partecipato hanno indicato alcune strade. Per Allison Jordan, del The Wine Institute californiano, che fornisce indicazioni pratiche ai viticoltori per un’attività proficua e in equilibrio con l’ambiente, “è fondamentale incrementare le collaborazioni a livello internazionale, confrontarci con altre realtà e istituti nel mondo, per scambiarsi esperienze e opinioni”.
Mentre per Ignacio Sanchez, segretario generale della Ceev, “bisogna cercare di semplificare e ridurre il numero di marchi, autocertificazione e loghi, e anche la quantità di regole locali, che definiscono criteri diversi nel definire la sostenibilità del vino, anche in risposta a esigenze locali, ma che finiscono poi per confondere le idee al consumatore”.
Per Jean-Claude Ruf, coordinatore scientifico all’Oiv, “è importantissimo comunicare a tutti i protagonisti della filiera del vino, consumatori compresi, che la sostenibilità può passare soltanto attraverso l’innovazione”.
Secondo Giuseppe Tasca d’Almerita, patron dell’omonima casa vinicola siciliana, “la sostenibilità si raggiunge anche attraverso la collaborazione tra le imprese, come abbiamo fatto noi con altre cantine della nostra regione, e comunicando, con estrema sincerità, non soltanto gli obiettivi raggiunti, ma anche quelli che non siamo riusciti a centrare. Perché siamo umani, facciamo errori anche noi, e il percorso verso la sostenibilità non è semplice, ma costellato di difficoltà”.
Infine Romano De Vivo, portavoce della Ecpa, l’associazione europea per la protezione delle varietà coltivate, è convinto che la sostenibilità nel settore vitivinicolo si ottenga soltanto attraverso uno stretto legame con le altre attività agricole e con una protezione dell’ambiente “che ci consenta di recuperare biodiversità, non solo delle cultivar ma anche delle specie naturali, attraverso la creazione di corridoi protetti per la conservazione delle specie. Delle infrastrutture ecologiche, da sviluppare intorno a campi e vigneti e in grado di svolgere molte funzioni: proteggere dall’erosione, ridurre la percolazione dell’acqua e il fabbisogno idrico per l’irrigazione, controllare la diffusione di insetti nocivi e fornire altri servizi utili all’agricoltura”.
I Gruppi di lavoro
Armonizzare pratiche e soluzioni mantenendo le specificità delle singole aree produttive
Al giro di interventi degli speaker è seguita poi una riflessione su temi specifici della sostenibilità condotta da piccoli gruppi di lavoro. Un approfondimento reso possibile dal particolare format del convegno, in cui sono stati allestiti otto grandi tavoli per ospitare gli esperti su particolari tematiche, come la gestione idrica nel vigneto o in cantina, la biodiversità o gli aspetti economici e sociali di un approccio sostenibile. Un tavolo è stato riservato anche a un gruppo di studenti, che a loro volta hanno lanciato una sfida ai tecnici presenti attraverso un doppio invito: puntare sempre più sulla tecnologia, per esempio sull’agricoltura di precisione, per la gestione del vigneto e lavorare particolarmente sul consumatore per sensibilizzarlo all’importanza della sostenibilità nella scelta del vino.
Il tema più sentito dagli esperti è stato quello dell’armonizzazione delle pratiche e delle soluzioni messe in pratica in tutto il mondo pur mantenendo le specificità delle singole aree produttive. Per esempio per Osvaldo Failla, del dipartimento di Scienze agrarie e ambientali all’Università di Milano, “il problema della gestione dell’acqua nel vigneto va affrontato in modo globale, ma le necessità di zone di produzione come la California o l’Australia, dove le precipitazioni sono molto scarse, sono diverse rispetto ad altre dove la risorsa acqua è relativamente più abbondante”.
Karissa Kruse, presidente della Sonoma County Winegrape Commission, in California, riconosce che “c’è una gran voglia da parte di tutti, produttori in primis ma anche consumatori, di mantenere intatto l’ambiente e, soprattutto, l’habitat naturale dentro e intorno il vigneto, ma è fondamentale fare più ricerca su questo punto perché certi meccanismi ed equilibri non sono ancora ben conosciuti e, soprattutto, per sviluppare varietà più resistenti”.
Mentre Mike Veseth, esperto di economia della filiera vinicola e professore all’Università di Puget Sound, nello stato americano di Washington, “ha sottolineato l’importanza di non creare un modello globale di sostenibilità, ma di lasciare spazio a processi e certificazioni pensati sulle necessità delle singole comunità, pur nell’ambito di una visione condivisa del problema. Un’armonizzazione che può avvenire soltanto attraverso l’individuazione di priorità ben precise che portino a prendere in futuro decisioni migliori”.
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