Amsterdam. Si è chiusa con un bilancio più che positivo la quarta edizione della World Bulk Wine Exhibition, svoltasi come di consueto ad Amsterdam: 130 espositori da 11 Paesi, il 30% in più rispetto al 2011, rappresentativi di circa il 50% del volume di vino sfuso intermediato nel mondo, e circa un migliaio di visitatori professionali, da una sessantina di Paesi. Non sono mancati i grossi calibri – Cofco (Cina), Arcus Wine Brands (Norvegia), Fondberg (Svezia), OJSC Abrau-Durso and National Wine Terminal (Russia), Bodegas Valdepablo (Spagna), Kataoka & Co. (Giappone) – segno che – nonostante la penuria di prodotto che ha un po’ ingessato le trattative quest’anno e i prezzi che stanno andando su ovunque– l’interesse del mercato a livello mondiale è comunque vivo.
Proviamo a fare due conti del mercato e di come si sta evolvendo: nel 2011, secondo i dati presentati da Rafael Del Rey, direttore dell’Osservatorio spagnolo del mercato del vino (Oemv), il commercio di vino sfuso si è attestato attorno ai 40 milioni di ettolitri, per un valore di circa 2,5 miliardi di euro. Fatto il calcolo con l’accetta, il prezzo medio di un litro di sfuso si aggira attorno ai 62 centesimi di euro. Un dato atteso in crescita nel 2012, considerando che l’Italia l’anno scorso viaggiava attorno ai 47 centesimi, mentre quest’anno (agosto) siamo balzati a quota 65. Gli unici a tenere i listini inchiodati, nonostante la richiesta fortissima di prodotto, sono i sudafricani, che da rumors raccolti in fiera pare avessero già piazzato l’intera produzione 2013, a 45 centesimi di euro al litro.
La cosa che invece fa più riflettere aggirandosi tra gli stand è però un’altra: la fiera dà modo di poter parlare at a glance con produttori di tutto il mondo. Se nella prima edizione gli spagnoli erano la strabordante maggioranza – visto che spagnolo è anche l’organizzatore, Pomona Keepers – nel corso degli anni la rappresentanza delle cantine da altri Paesi è andata via via crescendo. Quest’anno i più presenti erano i francesi (35), quindi gli italiani (23), gli spagnoli (19), 12 bodegas argentine, 10 sudafricani, 8 cileni, poi Australia, i debuttanti americani (con il Wine Group), Portogallo e Uruguay.
Che cosa emerge? Che lo sfuso non è uguale per tutti. C’è una concezione antica del commercio di questo vino, praticata dagli spagnoli (che avevano pensato a questa fiera in tempi di eccedenze per smaltire prodotto) e in gran parte da noi. La partecipazione italo-iberica (ma parte del discorso vale per i francesi) è costituita più che altro da grosse cantine cooperative, che smerciano prodotto di cui – detto brutalmente – si disinteressano della fine che farà: che venga imbottigliato come vino italiano, come blend con prodotto dell’Est o altro, questo poco importa. Quel che conta è la vendita.
Questa filosofia è in contrasto con quella operata dai gruppi del Nuovo mondo, a cui invece interessa chiudere il cerchio con il distributore. Ovvero, si vende vino a marchio e che con tale marchio sarà venduto sul mercato, qualunque esso sia. E’ la filosofia del Wine Group per esempio, ma è anche la filosofia adottata dai capostipiti di questa nuova tendenza, gli australiani, e seguita più di recente anche dagli argentini e cileni (si veda il grafico relativo alla crescita del valore export dello sfuso).
Cagr: tasso di crescita composto annuo
Se il vino è branded da imbottigliare nei mercati di esportazione, quello che si cerca di ottenere sono i classici due piccioni con una fava: da una parte un risparmio dei costi (condizionamento, packaging) per il produttore, che può cedere una parte del valore a valle all’interlocutore, il quale a sua volta guadagnerà sul margine del vino in quanto a marchio. Il produttore in teoria guadagna meno all’origine, ma monetizza questo mancato guadagno con i risparmi in termini di costi fissi. L’imbottigliatore-distributore risparmia sul prezzo d’acquisto e sul trasporto e incamera l’added value del brand.
E’ questa ultima una strategia che può essere a doppio taglio. I sudafricani, che non hanno forza contrattuale sufficiente, ci stanno rimettendo le penne, specie in Inghilterra, dove ormai sono al soldo della distribuzione. Ma per chi è corazzato (australiani, americani e le varie multinazionali europee, che sono al tempo stesso e a seconda del Paese in cui operano produttori e distributori, vedi il caso di Diageo in Italia, ma dello stesso Wine Group tra Usa e Australia), il gioco può valere la candela, per entrare in un risiko complesso che noi – detto francamente – facciamo ancora fatica a comprendere.
Detto più semplicemente, leggere le dinamiche globali di questo mercato mette in serio dubbio l’efficacia di certe nostre scelte legislative. Ne citiamo due: gli imbottigliamenti forzati in zona per certe Dop, giustificati da logiche antiche di gestione/remunerazione di tutte le fasi di processo. Se un tempo ci si poteva nascondere dietro la scusa delle falsificazioni, oggi, con un sistema di tracciabilità che consente di coinvolgere anche i partner esteri, tutto questo non regge più. Anzi, proprio il sistema di controllo dovrebbe poter essere utilizzato per estendere il valore della marca/territorio fino alla catena di distribuzione in un’ottica di partnership collaborativa e non di sudditanza/sospetto.
La seconda, ovvero la supposta valorizzazione dei nostri vitigni autoctoni di grande massa operabile tramite l’esclusione dalla lista dei vini varietali: l’unico risultato oggi prodotto è che siamo in giro per il mondo a competere con gli stessi vini dei francesi o californiani, ma senza marchi di immagine riconosciuta che garantiscano sul reale plusvalore del prodotto.
Ma al di là delle leggi (che poi sono uno specchio delle nostre debolezze), quello che ci manca – per essere un Paese con ancora un terzo di vino sfuso sul totale esportato – è una chiara visione degli obiettivi all’origine: siamo troppo piccoli, persino le nostre cooperative più grandi, quelle che giganteggiano in Italia, quelle con contatti commerciali avviati all’estero, portate oltre confine impallidiscono. Il problema è che il prodotto lo detengono loro, e spesso la visione che si offre è puramente di breve: far le scarpe all’imbottigliatore privato (quando non alla cooperativa concorrente). Su questo, cooperazione e privati avrebbero molto su cui ragionare, per arrivare a porsi come obiettivo quello di stare sul mercato in maniera profittevole per tutti. Magari insieme.