Una delle sfide che le cantine dovranno affrontare nei prossimi anni si può sintetizzare in una sigla: Rsi, Responsabilità sociale d’impresa. Un concetto – quello di produrre senza sprecare risorse e facendo attenzione al benessere di tutti gli stakeholder – con cui gli imprenditori italiani iniziano finalmente a familiarizzare, con risultati che premiano. “Mentre in passato le si considerava investimenti a fondo perduto, ormai è chiaro che esiste una relazione positiva fra iniziative di responsabilità sociale e performance economico-finanziarie”, spiega Gaia Melloni, ricercatrice all’università Bocconi. L’attenzione all’ambiente e alla società si traduce in una capacità di attrarre consumatori consapevoli, ma anche investitori e lavoratori motivati: “Naturalmente a patto che l’impegno sia comunicato all’esterno – continua Melloni –, che sembra banale ma non lo è. Molte cantine sono già improntate a criteri di sostenibilità, però non se ne rendono conto o non lo comunicano, e dunque non riescono a sfruttarne i benefici”.
Proprio perché “comunicare” è importante quasi quanto “fare”, di best practices in tema di Rsi si è parlato a Vinitaly, durante un convegno organizzato da Cielo e Terra, fra le cantine italiane più attive in questo senso. L’azienda vicentina, che ogni anno vende nella Gdo 8 milioni di bottiglie del suo Freschello, ha innanzitutto investito per ridurre l’impatto energetico della produzione (per dare un’idea, con l’energia risparmiata ogni milione di bottiglie si potrebbe illuminare per 11 mesi la Tour Eiffel, con l’acqua riempire 210 Jacuzzi, mentre l’anidride carbonica che non viene immessa nell’ambiente è pari a quella del volo transoceanico di 96 passeggeri). Non solo: ha costruito 31 pozzi di acqua potabile in Sierra Leone, finanziato attività educative per 200 bambini di Medellin, in Colombia e coinvolge una cooperativa di ragazzi con sindrome di Down nella confezione dei cesti natalizi.
Quello di Cielo e Terra è un esempio positivo che potrebbe innescare un effetto di emulazione: già, perché se è vero che pratiche come queste cominciano a diffondersi in molte aziende italiane, ancora stentano ad affermarsi in quelle del settore vitivinicolo, naturalmente con importanti eccezioni. Già da un paio d’anni, ad esempio, Astoria ha riempito di fiori i suoi vigneti di Crevada (TV), abbattendo del 40% l’uso di antiparassitari e fitofarmaci; a Faenza, Caviro recupera il 99,9% dei rifiuti, trasformando i prodotti di scarto in zuccheri d’uva e acido tartarico; Antinori ha voluto che la sua cantina nel Chianti Classico fosse un modello di efficienza energetica e integrazione nel paesaggio. E se l’impegno per l’ambiente comincia a vedersi – anche per l’esistenza di norme sempre più rigorose – in campo sociale si arranca di più (ma non si può non menzionare almeno il caso Frescobaldi, i cui enologi e agronomi insegnano i segreti del mestiere ai detenuti della colonia penale dell’isola di Gorgona).
Eppure, anche se la sostenibilità non è il fattore principale che influenza la scelta di un vino, le ricerche dimostrano che i consumatori sono disposti a spendere di più per un’etichetta amica dell’ambiente e della società. Per i produttori non si tratta di fare semplice beneficenza, ma di investire nei progetti giusti, per sé e per le generazioni future. Anna Bigano