Borgo Rocca Sveva, centro d’eccellenza di Cantina di Soave (2.200 soci, attivi su 6000 ettari di vigneto di proprietà) festeggia i 10 anni dall’inaugurazione. La cantina, nata dalla ristrutturazione e ricostruzione delle ex Cantine Ruffo, ai piedi del castello di Soave (VR), comprende 10.000 mq coperti dove sono collocate la struttura produttiva per la vinificazione, l’affinamento e l’imbottigliamento dei vini a marchio Rocca Sveva assieme agli spumanti metodo classico Equipe 5, un wine shop e un centro congressi. Quest’ultimo ha ospitato lo scorso 6 settembre, proprio in occasione del decimo anniversario del brand di alta gamma di Cantina di Soave, la tavola rotonda sul tema “La nascita dei vini del Mediterraneo” cui è seguito un walk around tasting di cinque aziende produttrici provenienti rispettivamente da Armenia, Georgia, Libano, Grecia e Turchia. Vini indubbiamente “diversi” e ancestrali, provenienti da vitigni autoctoni e che rispecchiano la storia ampelografica e il carattere di chi li produce.
Il viaggio della vite
Proprio della domesticazione da parte dei vari popoli, in epoche diverse, della vitis vinifera e della sua origine storico antropologica si è parlato durante tutto il convegno moderato dal prof. Attilio Scienza, che ha sottolineato l’importanza rivestita dai vitigni autoctoni in questo viaggio della vite da oriente verso occidente. “Sono la testimonianza – ha detto l’ordinario di viticoltura dell’università di Milano – di un’espressione territoriale frutto del procedere della storia per anelli successivi, dove ciascun anello è un punto di arrivo e di partenza, luoghi dove si fondono le esperienze dei popoli che vengono a contatto fra loro, poiché la storia della vite e del vino è una storia di acqua e di migrazioni”.
Un convegno che attraverso i propri relatori, ha sviscerato le diverse teorie sull’origine della viticoltura come quella di Patrick McGovern, docente di archeologia presso l’Università della Pennsylvania e autore tra gli altri di “L’archeologo e l’uva – vite e vino dal Neolitico alla Grecia antica”. Attraverso un approccio all’archeologia molecolare, sono state rilevate tracce di acido tartarico addirittura su reperti appartenenti al neolitico (8.500 – 4.000 a.C) che avvalorerebbero la teoria di McGovern su un’unica specie di vite eurasiatica (vitis vinifera sylvestris) che sta all’origine del 99% mondiale del vino di oggi. Dunque la gamma apparentemente infinita di pigmenti, sapori, consistenza e aroma del vino è dovuta al viaggio di una sola specie di vite.
La domesticazione della vite sarebbe partita tra il 6.000 e il 5.000 a.C. dalla regione Caucasica verosimilmente compatibile con l’attuale Georgia come ha mostrato “Archevitis – le radici della nostra identità enoica”, documentario a cura di Nereo Pederzolli, inviato Rai, che descrive la viticoltura georgiana come la più antica, con metodi di vinificazione come la fermentazione e l’affinamento del vino in grosse anfore di terracotta interrate. Essendo inoltre la Georgia provvista di vigne plurisecolari, è stato possibile, attraverso gli studi sul DNA, riconoscere e catalogare 525 diverse piante autoctone come fa emergere durante la tavola rotonda Osvaldo Failla dell’Università di Milano nel suo approfondimento sull’ampelografia del Caucaso e delle regioni a nord del Mar Nero.
La tutela di tale antica biodiversità tipica dei vini dell’area mediterranea è stato inoltre il tema dell’intervento di Jean-Luc Etiévent, fondatore del progetto Winemosaic, iniziativa nata l’anno scorso e supportata dall’OIV, che intende dare risalto alle varietà autoctone a scapito dei vitigni internazionali perché più resistenti alle malattie (vedi il caso della pronospera per la garganega nel Soave), più radicati al proprio terroir e con un’alcolicità meno aggressiva dei vitigni internazionali. Winemosaic si pone come piattaforma di interazione tra ricercatori, consumatori, produttori e distributori allo scopo di promuovere la biodiversità.
Dal passato al presente
Il passato, con i propri ricercatori, che si ripercuote sul presente della viticoltura e i suoi protagonisti come il direttore della Cantina di Soave, Bruno Trentini, con cui facciamo il punto su alcune tematiche attuali, come ad esempio l’imminente vendemmia. “Focalizzando l’attenzione sulla quantità, la produzione del 2013 resta comunque nella media – spiega Trentini -, ovvero più abbondante del 2012 in cui si è riscontrato un calo del 30% rispetto al 2011, pur non raggiungendo comunque i livelli di produzione del 2010 che restano ben superiori. La vite si rivela in buona salute, equilibrata seppur figlia della stagionalità che ha visto le piogge perdurare fino a giugno e posticipare la ripresa vegetativa della vigna. La vendemmia delle uve precoci (Chardonnay, Pinot grigio e Sauvignon) slitta a settembre (come avveniva del resto fino a 10-15 anni fa) mentre quella delle uve a maturazione più tardiva (Corvina, Rondinella, Molinara e Garganega) si avrà dal 20 settembre in poi. Dal punto di vista qualitativo è una vendemmia che presenterà sicuramente 1 grado alcolometrico in meno per le uve precoci mentre per le basi del Soave e le basi del Valpolicella a maturazione tardiva, dobbiamo aspettare le prossime 2 settimane. Se perdura il clima attuale, che vede temperature piuttosto elevate di giorno, con un’importante escursione termica di notte, sicuramente avremo una ripresa delle gradazioni alcoliche e una vendemmia molto buona, le premesse a oggi comunque sono ottimali. Non ci sono stati eventi catastrofici ad eccezione di un po’ di grandine in Valpolicella classica che ha pregiudicato la possibilità di mettere a riposo le uve nella zona interessata. Questo episodio però non ha il potere di incidere su una denominazione intera, proprio perché, per sua natura, colpisce zone molto circoscritte”.
Ci troviamo a Borgo Rocca Sveva, che significato ha per lei questo decimo anniversario?
E’ importante celebrare quelle cose che rappresentano un passaggio importante per le aziende. All’inizio le aspettative e le certezze da parte nostra erano tante quanto lo scetticismo da parte dei soci perché si trattava di un cambiamento epocale che non riguardava un semplice ampliamento aziendale o un miglioramento delle tecniche di lavorazione delle uve ma era una scelta strategica. All’interno di una cantina cooperativa nasceva un’azienda nuova dove si concentravano le produzioni di maggior pregio e dove c’era cura maniacale in fase di vinificazione, per produrre dei vini che potessero competere con i migliori vini al mondo, D’altronde era doveroso verso quei soci che hanno più vocazione qualitativa, bisognava valorizzare questa loro scelta. Poi, con un po’ di lungimiranza, abbiamo pensato di valorizzare la qualità attraverso una serie di azioni che si svolgessero a Rocca Sveva come l’organizzazione di visite ed educational frequenti e l’utilizzare la sala riunioni dei soci da 800 posti per fare dei meeting e convegni aziendali che oggi sono diventati circa 200 all’anno e che conducono a Rocca Sveva i professionisti più disparati in un ambiente dove ogni angolo parla di vino.
Rocca Sveva e Cantina di Soave producono alcune tra le maggiori Doc del Veneto e lei è anche presidente del Lessini Durello: come va sui mercati esteri?
Parlare di Doc venete vuol dire parlare di Prosecco con tutte le progressioni in termine di vendite avute negli ultimi anni, e significa parlare di due Doc storiche, il Soave e il Valpolicella. Oggi il Veneto è a livello nazionale l’area che sta meglio che ha i maggiori successi a livello di filiera, forse nessuna area gode delle remunerazioni in vigna di cui sta godendo il viticoltore veneto (una media di 10.000 euro per ettaro). Questo è il frutto di una strategia commerciale che sta dando i suoi frutti negli ultimi 3-4 anni. Il fatto che si possa perpetuare e progredire dipende dai produttori che non devono mollare il livello qualitativo e rendersi tutti conto che non si deve produrre in modo indiscriminato ma solo nelle quantità richieste dal mercato, quindi bisogna “gestire” la denominazione. Anche se è difficile da capire in Italia mentre i nostri cugini d’Oltralpe lo applicano da tempo. Sembrano 2 cose banali ma nei vari contesti spesso è difficile trovare gli accordi di filiera che permettono di mantenere questi obbiettivi. Il mondo sta dando ragione alle nostre denominazioni perché aumentano le esportazioni quindi, se perdiamo internamente, recuperiamo all’estero. La situazione pur non essendo rosea, per la congiuntura, resta ottimistica, ma ripeto, dobbiamo “gestire” la denominazione attraverso un organismo che esiste già e si chiama Consorzio di tutela e che, rappresentando quasi tutti i produttori, è in grado di trasferire possibilità e problematiche in modo da prendere decisioni in termini di quantità di uve prodotte e di indirizzi commerciali che possano dare continuità ai nostri vini.
Lei è membro del Cda del Consorzio di tutela del Valpolicella, cosa ne pensa della recente polemica sul cambiamento del disciplinare dell’Amarone?
Si dice che si vuole cambiare il disciplinare ma noi addetti ai lavori sappiamo che non è così. E’ tutto pretestuoso. Non c’è nessun ampliamento di zona rispetto a prima e per nessuno intendo proprio “zero”. Si vuol far passare un concetto sbagliato, nessuno ha mai parlato di ampliare la produzione, invece il Consorzio si era già attivato per capire se possono esistere delle zone a maggior vocazione rispetto ad altre all’interno del territorio della denominazione. Aree verso le quali si possa trasferire un concetto di “sottozona” che trasmetta maggior valore. Questo è un progetto serio, che si sta portando avanti ma che esce da quei proclami con finalità puramente propagandistiche. Bisogna inoltre sottolineare che tante aziende, tra cui la nostra, si stanno impegnando in questi anni per gestire, anche se non hanno la condivisione di tutti, la quantità di uve da appassimento, soltanto il 20-25% (della produzione massima per ettaro) e non il 50% come permetterebbe il disciplinare, in modo tale da non mettere sul mercato più Amarone di quanto il mercato assorba. Si tratta di un’operazione che andrebbe fatta da tutti invece alcuni operano in silenzio con senso di responsabilità, altri fanno dei proclami che sono al di fuori delle regole a cui si appellano.