Udine. Barbatelle sane? Sterili? Contaminate? E se contaminate, da cosa? E in quale momento esatto? Il quesito, quasi una diatriba, che da sempre contraddistingue il rapporto tra vivaista e viticoltore è ben lungi dall’essere placato. Anzi, il ricorso a tecniche diagnostiche sempre più evolute e perfezionate sembra scavare un solco sempre più profondo tra chi mette in commercio materiale vegetale e chi lo utilizza per realizzare nuovi vigneti.
Se da un lato esiste una regolamentazione europea che fa tuttora testo in materia (benché risalga agli anni Sessanta del secolo scorso) e che ha lo scopo di impedire la diffusione delle fitopatie, gli strumenti oggi disponibili hanno consentito di verificare la presenza all’interno delle piante di vite di un vero e proprio “ecosistema” di microrganismi, a volte dannosi, a volte anche utili, ma spesso indifferenti. Complice il livello di attenzione sempre più alto posto dall’imprenditore vitivinicolo verso la qualità delle proprie produzioni, si stanno verificando sempre di più atteggiamenti “integralisti”, che tendono a una sorta di sterilizzazione totale del materiale vegetale nella convinzione che questa possa impedire l’insorgere di malattie durante il ciclo produttivo del vigneto. Molto spesso, però, sono ancora ignoti i comportamenti di questi microrganismi una volta che la barbatella viene messa a dimora e si trova quindi in condizioni ambientali (terreno, clima, pratiche colturali…) tra le più disparate. Così come si tende a trascurare la presenza nello stesso ambiente di coltivazione (ambiente “vivo” di per sé) di microrganismi in grado di innescare comportamenti imprevisti e imprevedibili delle piante.
L’opinione di chi produce e chi controlla
Per questi motivi, vista la complessità dell’argomento, abbiamo voluto interpellare chi produce e commercializza materiale di moltiplicazione e chi è invece preposto all’effettuazione dei controlli sanitari sul materiale stesso, con lo scopo di dare ai nostri lettori un quadro esatto della situazione.
“In quanto produttori di barbatelle – spiega Eugenio Sartori, direttore dei Vivai Cooperativi di Rauscedo– ci sentiamo sempre più spesso rivolgere richieste di garanzie sanitarie totali del materiale che mettiamo in commercio. In pratica, chi pianta vigneti non si accontenta più delle garanzie sanitarie fissate dalle regolamentazioni europee fin dagli anni Sessanta, ma chiede garanzie sanitarie assolute e per molti anni. Si è diffusa l’idea che nei materiali acquistati ci deve essere l’assenza totale di organismi”.
“Le direttive europee in merito alla certificazione fitosanitaria – aggiunge Carlo Frausin, direttore del Servizio fitosanitario e chimico di Ersa Fvg – si appoggiavano, originariamente, su esami visivi del materiale di moltiplicazione e sugli strumenti diagnostici disponibili in quegli anni. In seguito a ciò, ci fu una svolta positiva nella produzione vivaistica e nella conseguente gestione dei vigneti. Negli anni Novanta fu introdotto l’Elisa Test che consentì (e consente) di vedere organismi virali che prima non si scoprivano, in maniera rapida ed economica. La nuova strumentazione in dotazione ai servizi fitosanitari (Pcr, a esempio) e la ricerca genetica ci consentono oggi di vedere tutti gli organismi presenti dentro la pianta, e sono tanti”.
Vediamo, cioè, la pianta nella sua complessità. Una complessità che, per gli organismi viventi, è la norma e della quale sappiamo ancora ben poco. “La vite, in particolare, è un condominio multietnico di organismi – secondo Frausin – ma non è detto che tutti questi organismi siano dannosi. Alcuni lo sono, è accertato, altri forse sono utili, altri ancora, indifferenti. La verità scientifica resta: i portatori sani sono diffusi nel mondo vegetale; conosciamo poco della vita e dell’importanza degli organismi, anche virali, che vivono nelle piante e non siamo certi che pulendo tutto, in un impeto di furore biologico, facciamo il bene della produzione vinicola. La diagnosi esasperata, insomma – chiude Frausin – non è sufficiente a dire se i singoli organismi sono nocivi o possono essere potenzialmente nocivi”.
Un buon compromesso
“La legislazione attuale è un buon compromesso per quanto riguarda la tutela virale e fitosanitaria in generale del materiale vivaistico viticolo e gli operatori del settore sono attentissimi al miglioramento della produzione – sottolinea Sartori –. Se si pretendono piante sterili, bisogna anche sapere cosa significa ciò per la biodiversità. Tutti i materiali originari e gli autoctoni, ad esempio, sono portatori sani di qualche virus che non hanno mai causato alcun danno economico alla produzione di uva e di vino. Se si pretende la pulizia totale delle barbatelle, inevitabilmente si deve eliminare tutto questo materiale e, con esso, tutta la ricchezza genetica che portano con sé. Infine, comunque, se portiamo in vigna delle barbatelle sterili, in ogni caso esse interagiscono con il nuovo ambiente (terreno, clima, esposizione, pratiche colturali…) e, dunque, potrebbero infettarsi di nuovo vanificando il lavoro fatto in precedenza dal vivaista”.
Resta il fatto che la strumentazione diagnostica oggi disponibile rende possibile da parte di chiunque lo scattare una radiografia della pianta in tutta la sua complessità. Una complessità che si può utilizzare solo a fini conoscitivi oppure come richiesta perentoria (non prevista dalla legislazione attuale), accelerando – forse inutilmente, forse producendo danni irreversibili – sul percorso che conduce all’inseguimento di una “pulizia etnica” che non è gradita neppure dai vegetali.